mercoledì 18 luglio 2018

"Abbiamo bisogno di introspezione" parla il dott. Stefano Andreoli


Abbiamo avuto il modo di parlare con un esperto di psicologia clinica e di psicoanalisi. Il dott. Stefano Andreoli però è anche un arguto osservatore della società. Ecco dunque ciò che ha dichiarato per quest'intervista.

1) Quali strumenti ha sviluppato di recente la psicologia clinica per aiutare le persone a ritrovare il proprio benessere psichico?

Tanti ... troppi. La psicologia cerca continuamente di sviluppare nuove "tecniche" o metodi (ad esempio la mindfulness tanto di moda oggi) per dimostrare di essere ancora efficace e di poter aver ancora voce in capitolo in mezzo ai tanti mercanti del benessere che promettono salvezze, guarigioni e panacee ad ogni male. Mi pare che la psicologia colluda con questa cultura allergica all'introspezione e alla consapevolezza (compresa quella del proprio dolore, dei propri sintomi), fondata sul tutto e subito e sugli agiti a discapito della riflessione. E che, quando non è interamente svuotata dal suo carattere esplorativo (diventando mera diagnosi categoriale di cui il DSM ne rappresenta l'espressione più radicale), stia iniziando ad assomigliare sempre più alle forme americane di coach, counselor e cultori del benessere, senza però offrire niente di più se non una posizione sorretta da un pezzo di carta, la laurea, che di certo non basta per fare un clinico quello che è.

 D'altronde questo è un problema antico esistente già dai tempi di Freud: tutto puo' essere terapeutico e tutto puo' fornire benessere (soprattutto la suggestione tramite il famoso effetto placebo), quindi anche le psicoterapie nate in tempi recenti (quelle brevi, quelle integrate, quelle biosistemiche, ecc...). Altra storia invece è quello che ha da offrire la psicoanalisi, che, benchè se ne dica, rimane qualcosa di fondamentalmente diverso dalla psicoterapia e soprattutto rimane lo strumento (oramai centenario) che possiede il mondo occidentale, ad avere il maggior potere conoscitivo e trasformativo sulla persona nella sua globalità. E ogni "nuova" tecnica di oggi, conscia o meno, quando non è mera suggestione, affonda le proprie radici nella psicoanalisi. 

Dunque, come vede, oggi si assiste spesso a sperimentare vino vecchio, molto vecchio, ma in botti spacciate per nuove. Più che inventare o rendere la psicologia sempre più idonea e "vendibile" nel mercato d'oggi, bisognerebbe riprendere in mano il passato. La sfida sta nel renderlo attuale per i fenomeni culturali e sociali dell'oggi.

2) In che modo possiamo riabituare le persone all'introspezione?

L'uomo è sempre figlio del suo tempo. Se nei secoli passati la conoscenza di sè e della propria Ombra (come la definisce in senso romantico Jung) erano considerati cardini della cultura (basti pensare al patrimonio artistico lasciatoci dall'800 con la nascita del Bildungsreise- viaggio di formazione-, l'uso di droghe psicotrope coadiuvanti l'indagine di sè, l'attenzione sull'ignoto e la parte più oscura dell'uomo e della Natura...), oggi questo aspetto ha perso completamente la sua importanza all'interno di uno Zeitgeist ritratto da Erich Fromm come la cultura della “razionalità strumentale”, della fretta e dell’efficienza, dell’edonismo, del pensiero concreto e binario, della tendenza all’azione e alla scarica subitanea di conflitti e tensioni, che spinge verso l’ottenimento di risultati immediati al massimo del risparmio in termini di tempo e costi. 

Siamo i figli di un tempo di cui Pasolini nei suoi "scritti corsari" aveva già profetizzato i rischi e le amare conseguenze omologatrici. Come ritornare all'uomo introspettivo? Chiaro che ognuno compie il proprio cammino in diversi modi: chi con l'arte, chi studiando appassionatamente qualcosa, chi ancora più radicalmente abbandonando la propria madre cultura gettandosi in altri luoghi famiglia sperando di trovarci una diversità ancora non intaccata dalla globalizzazione, chi ritirandosi nella vita monacale in una vita di silenzio e solitudine (sempre ottimi alleati dell'introspezione). Ognuno trova i propri strumenti attraverso ciò che gli pare più connaturato. Personalmente parlando, dopo svariati tentativi e dopo una moltitudine di diverse esperienze sempre tese alla ricerca come un eterno esploratore irrequieto (come si definiva Bruce Chatwin), sono approdato per disperazione (come molto spesso succede), alla psicoanalisi. 

Sperimentandola sulla propria pelle, studiandola approfonditamente e infine vivendola nella professione clinica. Esperienza artistica a parte (la letteratura rimane sempre una cariatide per questo fine), mai ho sperimentato direttamente qualcosa di così rivoluzionante e intrigante come quella che S. Mitchell (stella brillante della psicoanalisi contemporanea), definisce "l'esperienza della psicoanalisi".

3)  In genere oggi in Italia quali sono i disturbi psichici più ricorrenti?

Ah, basta chiedere alle farmacie, che dispensano sempre più antidepressivi e ansiolitici prescritti direttamente dai medici di base come fossero mentine. Al di là della tassonomia dei vari aspetti sintomatici (su cui l'onda del mercato è sempre più attenta in modo da fornire l'illusoria esistenza di metodi e interventi "specifici e focalizzati", come se il sintomo fosse un parassita da cui disfarsi e non un segnale, un modo del proprio essere di comunicare qualcosa, un prezioso "messaggio in bottiglia" da comprendere e integrare), ritengo che le caratteristiche socioculturali descritte in precedenza abbiano portato nel tempo (a cominciare dagli anni '50 con l'espansione del modello culturale americano) un tipo di persona molto diversa rispetto a quella ai tempi di Freud. Per cui all'interno degli studi di psicoterapia si incontra sempre di più l'uomo svuotato, alienato, denutrito e povero interiormente (come lo ha descritto Erich Fromm nei suoi lungimiranti scritti), piuttosto che (a parità di condizioni socioeconomiche) quello tipicamente nevrotico di una cultura di un tempo molto diversa da quella attuale. 

E il riflesso più diretto dei tipi più diffusi di disagi odierni, è visibile nelle problematiche più spesso lamentate dal paziente, ossia quelle inerenti la sfera delle relazioni sociali e interpersonali. D'altronde non è un caso: per intessere soddisfacenti relazioni la persona deve aver raggiunto una certa maturità di sviluppo e una certa autonomia (dev'essere uscita dal proprio narcisismo come si dice in gergo). Aspetto tutt'altro che scontato in questa società che spinge all'infantilizzazione e la dipendenza orale/consumistica dell'individuo piuttosto che la sua indipendenza e crescita. 

E quindi ancora non è un caso se la psicoterapia d'oggi sia diventata di conseguenza sempre più attenta alla relazione concreta del qui e ora all'interno del setting terapeutico: prima di poter esplorare il mondo circostante con le proprie gambe, il bambino prima deve potersi fidare dell'adulto, e prima di poter utilizzare il pensiero logico-astratto, deve passare per quello concreto (Piaget docet). L'uomo prodotto da questa cultura il più delle volte ha un'età cronologica che non corrisponde a quella mentale, psichica. E forse (e questa è una mia personalissima opinione), l'uomo di oggi - e quello che quindi si incontra in studio - è più regredito e arcaico rispetto a quello del passato.

4) La società deve dunque cambiare. In che modo?

La società produce un certo tipo di individuo che andrà a rinforzare, per necessità o per ignoranza, quel tipo di società. Dunque così sembra un'aporia senza soluzione, un circolo vizioso perverso come in un ciclo bulimico dove un cieco e avido consumismo spinge ad inghiottire senza sosta fino all'autodistruzione dell'organismo stesso. Tuttavia credo che la chiave di svolta risieda nel tarlo, nella falla, negli effetti che produce inevitabilmente tale sistema: ossia nel sintomo, nel disagio, nella sofferenza, nell'infelicità che prima o poi sopraggiungono. Questi infatti rappresentano il segnale, il monito che qualcosa non sta funzionando correttamente all'interno della persona (come una sorta di allarme salvavita), che quella parte di sè sana, ancora non livellata e demolita dall'ambiente esterno, si ribella, scalpita, vuole mostrarci con tutte le sue forze che qualcosa non va. 

Ed è in questo momento, in questa circostanza poco piacevole che alla persona viene donata una preziosissima opportunità: o scacciar via la sofferenza e tentare di sedarla con ogni mezzo con uno dei tanti antinfiammatori e distrazioni che la società ha da offrire nel suo pacchetto patologico, per ritornare alla vita di prima ("cosiddetta sana" come scriveva ancora Fromm), oppure utilizzare quel disagio come forza e strumento di ricerca, scoperta e rivoluzione di sè. E la psicoanalisi in questo obiettivo è eccezionalmente unica: trasformare in senso attivo questo disagio vissuto passivamente e intrusivo, cercando e amplificando quella parte intima, profonda di sè che desidera crescere, da cui proviene la vitalità, la creatività, l'Eros che ogni essere umano porta in nuce dentro di sè. Dicono che l'idiogramma cinese di crisi significhi anche "momento cruciale": la psicoanalisi non fa altro che cercare di rimuovere gli ostacoli e le barriere che impediscono all'uomo di essere libero di scegliere e di esprimere se stesso. 

Uno psicoanalista scriveva che la psicoanalisi aiuta l'uomo a diventare ancora più libero e umano. Ecco allora che dinanzi alla sofferenza l'individuo si trova dinanzi a quello che gli esistenzialisti definiscono come la più angosciante delle possibilità: la libertà di scelta e quindi la sua responsabilità. O attraversare il deserto compresi i suoi pericoli, i rischi, le difficoltà che comporta l'introspezione, l'esplorazione dell'inconscio con la prospettiva di sovvertire anni e anni di strutture consolidate, oppure continuare ad essere protetto e nutrito da una madre - la società - che lo vuole un eterno lattante. Una volta che la persona avrà compiuto tale percorso, non sarà più quella di prima. E con lei la società. A cominciare dalle piccole grandi attività quotidiane che la persona svolge all'interno del proprio lavoro e della propria famiglia. "Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma divenendo coscienti del buio" scriveva Jung.

5) La psicanalisi ha dunque una fondamentale funzione sociale se non addirittura politica. Come si può però applicare queste cure cosi importanti ad una popolazione e non solo ad un singolo individuo che sceglie poi deliberatamente di sottoporsi a queste sedute?

Volontariamente non ho mai parlato di cura (dato che non esiste una linea di demarcazione netta tra il sano e il patologico) , né di sottoporre qualcuno a qualcosa. La psicoanalisi come strumento di ricerca di sé deve necessariamente rappresentare una scelta per l'individuo, una necessità, una chiamata interiore. Se si allineasse all'offerta del mercato iniziando a promettere salvezze, diffondere dogmi, regole e procedure da seguire come va tanto di moda oggi, o peggio ancora, ad imporsi sulla popolazione omologandone gli obiettivi e le tecniche, perderebbe completamente le sue qualità snaturandosi completamente. 

Per potersi dire psicoanalitico un percorso deve lasciare sempre e comunque la massima libertà all'individuo nel suo essere, anche nel suo attaccamento patologico al sintomo, e ciò significa fornire sempre all'analizzando la piena iniziativa, modalità d'espressione e volontà di direzione; lo psicanalista non fa altro che facilitare questo processo in senso maieutico, cercando il più possibile di rimanere in disparte (in linea di principio generale), in modo da rendere la persona autonoma, attiva, consapevole e responsabile di ciò che é e che fa.

Per la psicoanalisi la vera sfida piuttosto consiste nel ritornare attuale e presente nel panorama socioculturale odierno: per vari motivi la psicoanalisi nel tempo ha finito per apparire al pubblico come anacronistica, snob, elitaria, velata di scetticismo e misticismo, diventando di sicuro una scelta nettamente minoritaria rispetto all'enorme pletora di psicoterapie e approcci di oggi. Tuttavia la psicoanalisi rappresenta in realtà uno strumento più che mai necessario, sovversivo ed estremamente attuale per l'uomo contemporaneo che, in tutta franchezza, dimostra una certa resistenza nell'entrare in contatto con se stesso, la propria interiorità. La sfida sta proprio nel riconquistarsi la fiducia persa ritornando ad essere più che mai fruibile e viva nella cultura odierna.

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