martedì 3 luglio 2018

Recitare per recuperare il Se


Il teatro è espressione vivente del Se. Si tratta di un vero e proprio simbolo concreto che può avere, a mio modesto avviso, valenza terapeutica. La psicologia definisce infatti il Se come un nucleo polidirezionale che ha cioè un aspetto cognitivo, uno affettivo, uno materiale, etc. Tutti elementi che possiamo trovare interpretando un personaggio a teatro.

Innanzitutto nel carattere del personaggio impersonificato. L'attore non finge di essere un avaro ma lo è e come tale fa emergere il tirchio che è in se, magari soffocato dal vivere civile. La scenografia è proiezione oggettuale dei sentimenti e dei significati che la piece vuole esprimere, specie nella grande drammaturgia borghese novecentesca, basti pensare ad Ibsen.

La definizione materialistica del Se trova dunque facile riconoscimento nel rapporto che l'attore vive con la scenografia e gli spazi che sono stati realizzati per dargli esistenza concreta. L'emotività trova centralità e dinamicità grazie alla presenza fissa dell'altro e dell'alternarsi di individui intorno alla vicenda stessa.

Il teatro insomma è una gran palestra psico emotiva ma può essere anche un esperimento da adoperare in vista dei tempi che corrono. Nel secolo dello smarrimento totale dell'identità, dello smembramento della personalità, potrebbe essere utile ritrovare se stessi in uno spettacolo. Se dunque interpretando l'avaro faccio prevaricare la tirchieria che è in me, cosa accade nel momento in cui devo interpretare me stesso?

Dovrei emergere io nel pieno del mio essere, scrutato da me in quanto scrittore, attore ma sopratutto pubblico. Diverrei spettatore del mio vissuto e regista di ogni mia vicissitudine, proprietario indiscusso della mia esistenza.

Quindi potrebbe essere un'idea scrivere una commedia in cui il protagonista è lo stesso autore? Cosa accadrebbe se ognuno di noi facesse una cosa del genere? Potremmo scoprirci nudi e vulnerabili, spaventati dagli occhi indiscreti. I primi sarebbero proprio i nostri!

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